martedì 30 marzo 2010

Pasqua e lo "Scoppio del Carro"


Secondo la tradizione, riferita dall'antico cronista fiorentino Giovanni Villani (Cronica, libro I°, cap. IX), la vetusta cerimonia dello "scoppio del carro" sarebbe da collegarsi alla prima Crociata, predicata a Firenze dal vescovo del tempo Ranieri ed alla quale parteciparono oltre duemilacinquecento concittadini, al comando di Pazzino di Ranieri de' Pazzi.
Il 15 luglio 1099, dopo un lungo assedio, l'esercito crociato conquistò Gerusalemme; Pazzino sarebbe stato il primo ad innalzare il vessillo cristiano sulle mura della città santa, ed avrebbe ricevuto in dono da Goffredo IV duca di Buillon (detto Buglione), della Bassa Lorena, tre scaglie di pietra del santo Sepolcro di Cristo, poi gelosamente custodite e portate a Firenze nel 1101.
Conservate in un primo tempo dalla famiglia Pazzi, le tre pietre furono usate per trarne una scintilla di fuoco "novello" (simbolo tutto pasquale di vita nuova) distribuito poi, dopo la benedizione, alle singole famiglie per riaccendere il focolare domestico.


Si diffuse così a Firenze l'uso, attestato per Gerusalemme durante le Crociate, di distribuire al clero ed al popolo il "fuoco santo" nella basilica dell'Anastasis (o del santo Sepolcro), come segno della Risurrezione di Cristo.
Le schegge lapidee furono successivamente consegnate alla chiesa di S.Maria sopra Porta (chiamata più tardi S.Biagio); soppressa detta chiesa nel 1785, le pietre del santo Sepolcro furono trasferite nella vicina chiesa dei Santi Apostoli, il cui parroco tuttora le custodisce.
Per secoli il fuoco benedetto, portato anche in Cattedrale, servì per accendere il cero pasquale, i ceri del clero e del popolo, i lumi della chiesa nel Sabato santo.
Un carro recava la fiamma nuova anche nelle abitazioni e, prima di tutto, alle case dei Pazzi, che per lungo tempo conservarono questo privilegio, accanto all'onere di organizzare la cerimonia.
Il carro fu reso via via più fastoso ed invalse l'uso di "caricarlo" con polvere pirica, cui veniva dato fuoco (quasi certamente a partire dal 1494) una prima volta davanti al Battistero, come tuttora, ed una seconda al "Canto de' Pazzi", dove abitava quella consorteria. Questo ulteriore "scoppio" cessò agli inizi del 1900.
Durante il pontificato di Leone X° (Giovanni de'Medici, 1513-1521) venne utilizzata per la prima volta la "colombina", vale a dire un razzo a forma di colomba con un ramoscello di ulivo nel becco (evidente richiamo allo Spirito Santo, "che è Signore e dà la vita", nonché simbolo della pace pasquale). Al "Gloria" della S.Messa il diacono accende, col fuoco benedetto di cui sopra, la miccia della colombina. Essa, scorrendo su di un cavo che parte dal coro maggiore del Duomo, va ad incendiare il carro. "Scoppiano" così fuochi artificiali: mortaretti, girandole, razzi.
Dall'anno 1957, con la riforma della liturgia pasquale, la cerimonia è stata trasferita dal mezzogiorno del Sabato santo alla stessa ora della Domenica di Pasqua. In quel giorno l'Arcivescovo si reca col clero della Cattedrale in Battistero, dove riceve il fuoco sacro proveniente dalla chiesa dei SS.Apostoli e portato da un corteo storico, nel quale sono rappresentati il Comune e, mediante le insegne araldiche, l'antica casata dei Pazzi.
L'Arcivescovo benedice il fuoco ed asperge i presenti e la folla raccolta in piazza con l'acqua lustrale benedetta nella veglia di Pasqua; poi il clero, al quale si uniscono in solenne processione le suddette rappresentanze, torna in Duomo; mentre il presule intona il canto dell'esultanza pasquale e le campane suonano a distesa, si rinnova la secolare tradizione dello "scoppio del carro".

english text http://www.duomofirenze.it/feste/pasqua_eng.htm

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lunedì 22 marzo 2010

"Re di Sapori" - il peperoncino protagonista


Giro del mondo del peperoncino
di Eleonora Cozzella

Il piccante è rivoluzionario. Era la tesi di Mao Zedong, capo della rivoluzione cinese. Il presidente rosso non era un palato sopraffino, anzi: mangiava di tutto. Purché fosse molto piccante. Così poteva usare i grani di pepe (quello famoso di Sichuan) come unico accompagnamento al pane o il peperoncino su qualunque cibo, meglio se crudo, da solo, a pezzi. E tra rivoluzionari e peperoncino deve esserci certo feeling se anche Che Guevara non ne era mai sprovvisto, per arginare i suoi improvvisi attacchi d’asma. Di questo e altri aneddoti è ricco il libro "Re di Sapori" - il peperoncino protagonista di ricordi, passioni, sentimenti, con oltre 800 ricette piccanti", scritto da Monica Giunchiglia, giornalista di cronaca e politica con la passione per la cucina e per i viaggi. Il volume (ed. Tropea, 482 pagine, 22 euro), inaugura la collana cultural-gastronomica Le cipolle di Tropea
...continua
http://espresso.repubblica.it/food/dettaglio/giro-del-mondo-del-peperoncino/2063215

lunedì 15 marzo 2010

Father's Day





Frittelle di riso di San Giuseppe

Ingredienti per 6 persone

1. Riso 500 g
2. Latte 1/4 l
3. Acqua 1/4 l
4. Uova 3
5. Rhum 1 bicchierino
6. Uvetta sultanina q.b.
7. Zucchero 110 g
8. Lievito per i dolci 1 bustina
9. Scorza di limone e arancia grattugiate q.b.
10. Sale 1pizzico
11. Farina 2 cucchiai
12. Vaniglia 1 stecca
13. Zucchero a velo q.b.
14. Olio per friggere 1 l


Preparazione

1
Lessate il riso nell'acqua e latte, con la stecca di vaniglia che avrete inciso per liberare
i semi, per una ventina di minuti: deve rimanere morbido. Eliminate la stecca e lasciatelo raffreddare
2
Trasferitelo in una ciotola ed incorporate gli altri ingredienti, escluso lo zucchero a velo.
3
Fatelo riposare per circa un'ora, dopodiché friggete il composto a cucchiaiate nell'olio bollente. Si otterranno delle crocchette sferiche,
che saranno cotte quando presenteranno un bel colore marrone.
4
Scolatele su carta assorbente, lasciatele intiepidire, quindi spolveratele con lo zucchero a velo e servite.
ma ancora tiepide; MAI FREDDE.


“A Prato vige il detto ‘S. Giuseppe non si fa senza frittelle’, nel senso che la tradizione è talmente radicata da diventare un modo di dire,
un proverbio che equivale a quello che parla di spine e di rose”. Tradizione molto antica, quella delle frittelle di riso in Toscana,
tant’è vero che ce le tramanda già il “Libro de arte coquinaria” di Maestro Martino de’ Rossi nel Cap. V (“Per far ogni frictella”):
“Fa’ cocere il riso molto bene ne lo lacte, et cavandolo fora per farne frittelle observerai l’ordine et modo scripto di sopra
(allude alle ricette precedenti in cui si parla di “fare le frittelle tonde con mano overo in quale altra forma ti piace,
mettendole a frigere in bono strutto o botiro, overo in bono olio”) , excepto che non gli hai a mettere né caso (formaggio) né altro lacte”.
Martino, ticinese di nascita, fu attivo a Milano come cuoco degli Sforza e nella Roma papale di Martino V nella seconda metà del XV secolo,
dove ebbe frequentazioni assidue con gli umanisti ed in particolare con il Plàtina, fiorentino di nascita.
Il riso a quel tempo era misconosciuto: nella cucina medievale era usato in polvere allo stesso livello di una spezia o per addensare minestre e salse,
mentre furono proprio gli Sforza ad inaugurarne le coltivazioni nella Pianura Padana. Così, pur timidamente, ci azzardiamo a ipotizzare un’origine illustre
per quello che è uno dei dolci più popolari e allo stesso tempo delicati di Toscana. Per quanto riguarda il riso da utilizzare, si consiglia l’Originario,
dai chicchi piccoli e molto amidacei, adatto alle preparazioni di dolci. Per la frittura consigliamo il delicatissimo e fruttato olio toscano.


Gabriele Giovannelli - Prato

lunedì 8 marzo 2010

La bistecca alla fiorentina
Ristorante Peperoncino







La “Bistecca alla Fiorentina” ha delle peculiarità di taglio, di cottura e di condimento che la rendono unica. La bistecca si ottiene dal taglio dalla lombata (la parte in corrispondenza alle vertebre lombari, la metà della schiena dalla parte della coda) del vitellone. Ha nel mezzo l'osso a forma di "T" – gli inglesi infatti la chiamano T-bone steak – con il filetto da una parte e il controfiletto dall'altra. La leggenda tramanda che il nome “bistecca” sia nato nella Firenze medicea. In occasione della festività di San Lorenzo (il 10 agosto) la città si illuminava della luce di grandi falò, dove venivano arrostite grosse quantità di carne di vitello che veniva poi distribuita alla popolazione. Si narra che proprio in occasione di una di queste celebrazioni la carne venne offerta ad alcuni cavalieri inglesi di passaggio a Firenze. Questi la chiamarono nella loro lingua “beef steak” riferendosi al tipo di carne che stavano mangiando. Da “beef steak” a “bistecca” il passo è stato breve.
Per un'ottima riuscita, la bistecca deve essere stata frollata diversi giorni dal momento della macellazione in luogo fresco, ma deve trovarsi a temperatura ambiente quando la si cucina. Deve essere un taglio di almeno 1-1,5 kg e alta almeno 5-6 cm. Andrebbe comprata al massimo 1-2 giorni prima, e conservata in frigorifero ben avvolta nella carta alimentare, senza mai congelarla. Per scaldare la griglia si usa un'abbondante brace di carbone di legna, usando preferibilmente carbone di quercia, di leccio o di olivo. La brace deve essere ben viva, ma appena velata da un leggero strato di cenere, senza fiamma. Messa sopra la carne senza condimento – operazione fondamentale per prevenirne l'indurimento – va girata una sola volta, cucinandola circa 3-5 minuti per parte. Va fatta poi cuocere "in piedi" dalla parte dell'osso per 15 minuti, finché non scompaiono da questo le tracce di sangue (la bistecca deve essere tanto spessa da stare in piedi da sola). Una buona cottura è il segreto di tutto il gusto di questo piatto: la carne deve risultare colorita all'esterno, ma rossa, morbida e succosa all'interno. La carne deve trovarsi all'inizio vicinissima ai carboni, cosicché si formi una crosta il più rapidamente possibile e il succo non fuoriesca, poi dopo il primo minuto deve essere alzata ad un fuoco più gentile. A fine cottura aggiungere un poco di sale grosso. Servire senza nessun altro condimento per gli appassionati, oppure con olio, pepe e limone a piacere per tutti gli altri. Accompagnamento tradizionale sono i fagioli cannellini all'olio, ma anche l'insalata. Sulla tavola si sposa con un buon Chianti classico, o come dicono nel senese "con la ciccia si va a nozze col Brunello".